Dante al Cinema #2 – La casa di Jack

Il male come arte e la discesa agli inferi secondo Lars von Trier

Dopo un’introduzione a volo d’angelo sulle proteiformi relazioni tra Dante e il Grande Schermo, Giuseppe Noviello ci trasporta oggi nelle più oscure regioni del cinema d’autore di ispirazione dantesca: un’opera in cui la seconda e la terza cantica non esistono, la redenzione non si intravede e lo scavo nel profondo del nostro inferno diventa disturbante e doloroso. O forse, come nel Cocito, neppure il dolore esiste più, in questa Casa di Jack di Lars Von Trier. Se dopo la lettura di questo articolo (spoiler alert! vi raccontiamo tutto il film) una cupa tristezza vi avvolgerà, ci permettiamo di lanciarvi, dal cuore di Napoli, un micro-consiglio: venite al Museodivino, imbracciate la lente di ingrandimento che forniamo a ogni visitatore e immergetevi nella Divina Commedia più piccola del mondo, dove lo spazio per l’Inferno è come sempre il più vasto ma dove tra i gusci di noce fioriscono anche tenere speranze di rinascita, pronte a esplodere infine in un minuscolo vortice di angeli in festa: la festa dell’impossibile, impensabile, ma irrinunciabile gioia eterna (SC)

Welcome in the House

La casa di Jack (The House That Jack Built, 2018), film profondamente ambizioso di Lars von Trier, trascende la semplice narrazione delle gesta di un serial killer. Si presenta come un’opera complessa e ricca di strati interpretativi, in cui l’orrore si intreccia in modo indissolubile con la filosofia, la psicanalisi, la storia dell’arte e, in modo particolarmente significativo, con la letteratura. Tra i riferimenti più evidenti, e al contempo più audaci, emerge quello alla Divina Commedia di Dante Alighieri, un’opera che permea il film a livello simbolico, narrativo e visivo, trasformando la pellicola in una vera e propria discesa negli inferi senza alcuna possibilità di redenzione o ritorno.

L’intervista al regista: Tra Divina Commedia e alter ego

Lars von Trier, intervistato in occasione dell’uscita in sala del suo film, esplicita l’ispirazione dantesca, accentuando soprattutto la dimensione figurativa del suo approccio alla Commedia:

“A ispirarmi è stata la Divina Commedia. Un poema che amo nonostante la mia difficoltà di cogliere certi nessi con la storia italiana. Mi piaceva l’idea di un uomo che per pareggiare i conti con i nemici, li manda all’Inferno. Dal punto di vista visivo i riferimenti sono stati alcuni disegni di Blake e un famoso quadro di Delacroix, La barca di Dante. Nel film l’ho ricostruito in modo preciso”.

Confronto fra La barca di Dante (Delacroix) e una scena del film

A rendere ancor più pregnante il rapporto con il testo matrice interviene l’ammissione della specularità tra il protagonista Jack e sé stesso, da cui deriva il rispecchiamento col sommo poeta, secondo una costruzione di grande effetto:

“Lo considero un mio alter ego, con la differenza che lui i suoi demoni interiori li realizza nel crimine, io li proietto sullo schermo. Entrambi ci inoltriamo nella “selva oscura” del male alla ricerca del bene. Dio e Satana convivono dentro di noi.”

Trama

Il film si presenta come una confessione disturbante da parte di Jack (Matt Dillion), un serial killer che dialoga con una figura misteriosa chiamata Verge (Bruno Ganz), guida della sua discesa verso l’Inferno. Solo in seguito scopriremo che Verge è in realtà Virgilio, e che il racconto di Jack non è altro che una confessione che accompagna il suo percorso nell’aldilà. La narrazione è suddivisa in cinque “incidenti” intervallati da riflessioni filosofiche e artistiche e si svolge nell’arco di 12 anni, dalla metà-fine anni ’70 alla metà-fine anni ’80, nelle zone rurali del Pacifico nord-occidentale degli Stati Uniti. Spiegare l’arte compiuta è un processo estremamente difficile, se non impossibile, è ancor più complicato capire le motivazioni che spingono un artista a creare: Jack è spinto dal suo narcisismo, condito da ossessioni compulsive di varia natura. Il primo motore del suo operato è certamente l’autocompiacimento: oltre a scegliere nella maggior parte dei casi donne di estrazione sociale medio-bassa, che può così manovrare a suo piacimento grazie alla sua spiccata intelligenza, il nostro protagonista ama anche fotografare le sue “nature morte” e inviare gli scatti ai giornali, per il solo gusto di collezionare gli articoli che lo riguardano (sotto lo pseudonimo di Me. Sophistication).

Incidente n. 1: La signora che fu uccisa per la seconda volta
Jack è alla guida della sua auto quando incontra una donna (Uma Thurman) bloccata in strada a causa della rottura del suo cric. La donna si mostra incredibilmente fastidiosa e sarcastica, insultando Jack per la sua goffaggine. Dopo averla aiutata a riparare la gomma, la donna lo convince a riportarla a casa, promettendogli di farsi pagare da sua figlia. Tuttavia, una volta in auto, si burla nuovamente di lui, sostenendo che un potenziale serial killer non avrebbe mai un aspetto così timido e impacciato come il suo. Irritato e provocato, Jack la uccide con il cric. Successivamente, ripone il corpo nel bagagliaio e, in un primo momento, è convinto di non averla uccisa, ma il corpo si muove e lui è costretto a ucciderla di nuovo. Questo episodio segna l’inizio della sua serie di omicidi e del suo rapporto contorto con il suo “lavoro” di assassino.

La prima vittima di Mr. Sophistication

Incidente n. 2: L’ossessione
Il secondo delitto è più metodico. Jack si finge assicuratore, entra nella casa di Claire Miller, una donna sola che viene strangolata a mani nude e accoltellata nel petto. Fin qui, la brutalità è “funzionale”. Ma ciò che segue è il vero cuore dell’episodio: Jack entra e riesce dalla casa ossessivamente, convinto di aver lasciato tracce. La tensione cresce con ogni ritorno: una macchia invisibile, un segno, una porta lasciata socchiusa. Quando finalmente si allontana, nota con orrore una lunga scia di sangue sull’asfalto. Sta per crollare… ma poi piove. L’acqua lava via ogni cosa. Jack guarda il cielo come se avesse ricevuto la benedizione di Dio. È lì che nasce la convinzione che tutte le sue azioni non sono sbagliate, bensì necessarie.

Incidente n. 3: Il picnic
Il terzo incidente è il punto di non ritorno. Jack porta una madre e i suoi due bambini in campagna, fingendo una giornata di relax. I piccoli corrono, giocando con il fucile che lui ha portato. Poi spara. Una volta. Il primo bambino cade. Poi spara ancora. Il secondo. La madre urla, isterica, ma Jack non la uccide subito. Le impone di fare finta di niente, le ordina di sorridere mentre scatta una foto, costringendola a partecipare al picnic accanto ai cadaveri dei suoi figli. Solo dopo la elimina. Ma non è finita. Più tardi, in un gesto che definisce l’essenza estetica del film, Jack trasforma uno dei corpi in una scultura, ne solleva un braccio in posa, aggiunge rami e un corvo morto. Scatta una foto e la contempla. È la sua prima “opera”.

La prima opera di Mr. Sophistication

Incidente n. 4: La mutilazione
Questo capitolo è una cruda espressione della misoginia di Jack e del suo desiderio di dominare. Jacqueline, la sua vittima, è presentata come una donna “semplice” che lui seduce e manipola. Quando lei ride incredula alla sua confessione di essere un assassino e di aver ucciso persone, Jack si sente sfidato nella sua identità. La mutilazione dei suoi seni non è solo un atto di violenza, ma un simbolico atto di deumanizzazione. Jack vuole dimostrare la sua superiorità, trasformando una parte del corpo di Jacqueline in un oggetto d’uso comune, un portafoglio, e l’altra in un trofeo che getta in faccia all’autorità. È la prova che per lui, le sue vittime non sono persone, ma puro materiale da manipolare.

Incidente n. 5: Il colpo singolo

Nel quinto e ultimo incidente, Jack tiene in ostaggio sei uomini all’interno del suo congelatore, con l’intenzione di ucciderli tutti con un solo proiettile. Dopo aver scoperto che le sue munizioni sono state etichettate in modo errato, Jack rinuncia al suo piano, rimprovera il proprietario del negozio di armi, e si reca a casa di un amico, SP. Quando SP telefona alla polizia per denunciare Jack, quest’ultimo lo colpisce e uccide l’agente che arriva per arrestarlo.

Tornato al congelatore, Jack ha bisogno di più spazio. Cerca di forzare una porta che non era mai riuscito ad aprire in vent’anni, e finalmente ci riesce, rivelando una seconda stanza. All’interno incontra un uomo che si presenta come Verge, con cui aveva precedentemente conversato, e che confessa di averlo osservato per tutta la vita. L’uomo ricorda a Jack che non è mai riuscito a costruire la casa dei suoi sogni, di cui aveva spesso parlato. Allora, Jack dispone i corpi congelati che ha raccolto nel corso degli anni per formare una “casa” macabra. Mentre la polizia fa irruzione, Jack entra nella sua dimora improvvisata e segue Verge in un buco nel pavimento, che li porta nell’Inferno.

La casa (di corpi) di Jack

La discesa negli inferi

Guidato da Verge, Jack attraversa paesaggi infernali. Non è più racconto criminale, ma allegoria. Corpi bruciati, anime dannate, abissi. Ogni scena vista coi suoi occhi rifletteva le azioni compiute nel mondo dei vivi: è un viaggio nella sua psiche corrotta. Alla fine, arriva a un ponte sospeso sopra un abisso. Verge lo avverte: nessuno è mai riuscito a saltare. Jack tenta comunque. Cade. Scompare nell’Inferno. Nessuna redenzione.

Verge non è solo un espediente narrativo, ma una figura simbolica: come Dante è accompagnato da Virgilio, così Jack ha al fianco una guida che lo confronta con il peso delle sue azioni. Verge rappresenta la coscienza morale, la voce della ragione che tenta di scalfire l’indifferenza di Jack. Ma mentre il sommo poeta cerca la salvezza, Jack cerca solo vendetta. Laddove il poeta intraprende un percorso di purificazione, il serial killer insegue un’estetica del male: l’omicidio come atto creativo, l’orrore come linguaggio espressivo dialogo tra Jack e Verge è uno scontro continuo tra logica perversa e morale universale. Verge non redime, ma spinge Jack alla consapevolezza della propria condanna, trasformando la sua discesa in un viaggio senza speranza.

Nel terzo atto del film, il legame con la Divina Commedia diventa esplicito. Jack e Verge attraversano una serie di paesaggi infernali che richiamano i cerchi danteschi, in un crescendo visivo che culmina in una grottesca rappresentazione del girone dei traditori: il mondo sotterraneo è cupo, lacerato e disordinato. Ogni dettaglio visivo — dalle tonalità cromatiche alla composizione delle inquadrature — costruisce un’atmosfera di oppressione e disperazione.Nel momento culminante del film Jack cerca di attraversare un ponte, simbolo di una possibile redenzione, ma cade. In questo mondo creato da Von Trier il male non salva, e chi ha scelto l’orrore come linguaggio espressivo è condannato irrimediabilmente. La caduta del nostro protagonista simboleggia proprio il fallimento della sua ricerca di giustificazione attraverso l’arte e la condanna per i suoi crimini.

La caduta di Jack

L’arte non deve chiedere il permesso.

La visione di questo film mi ha lasciato una sensazione che va ben oltre il semplice orrore. Ho provato qualcosa di più complesso, più scomodo: una sorta di fascinazione verso l’inquieto. Mi sono ritrovato a chiedermi non tanto “Come può Lars von Trier raccontare tutto questo?”, ma piuttosto: “Perché non riesco a smettere di guardare? Non dovrei provare disgusto?”

Forse perché Von Trier costruisce un personaggio che è insieme carnefice e artista, e ci sfida ad affrontare un’idea radicale: che l’arte non abbia il dovere di consolare, di educare o di portare redenzione. Jack è l’incarnazione perfetta di questo ideale e per quanto sia disturbante, questa ricerca della perfezione mi colpisce. Non credo che il film voglia giustificare l’orrore o la violenza. Al contrario: li espone nella sua nudità più cruda, senza filtri morali. Sta allo spettatore decidere come reagire e da che parte schierarsi.

Personalmente credo che l’arte debba avere il coraggio di confrontarsi col male. Se un’opera riesce a mettermi a disagio, a provocare, a costringermi a riflettere su ciò che preferirei ignorare, allora sta facendo esattamente quello che l’arte ha sempre fatto nei suoi momenti più autentici: lasciarci con dei quesiti al quale è difficile trovare una risposta esaustiva.

La casa di Jack non chiede il nostro consenso. E forse è proprio per questo che la sua visione mi è rimasta impressa: non perché voglia insegnarci qualcosa, ma perché ci obbliga a guardarci dentro. Anche, e soprattutto, quando ciò che vediamo non ci piace.

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